La battaglia sul Piano Paesaggistico
L’attacco al Piano paesaggistico della Regione Toscana, in corso di approvazione, è espressione di un dibattito basato su polemiche strumentali portate avanti da categorie che temono di perdere posizioni vantaggiose. Bisogna invece ribadire che quello in approvazione è un piano territoriale che finalmente considera il paesaggio non un settore, ma l’espressione di un territorio organizzato che tiene insieme natura, storia e società civile, cioè il cittadino inteso non come un soggetto statistico con l’obiettivo del consumo, ma come il fine per il quale costruire una società armonica che riesca a mantenere e a ricuperare l’arte di stare sul proprio territorio. È un’arte, espressa dalle generazioni che ci hanno preceduto, di convivere con i propri luoghi, fondata sull’esperienza che diventa il sistema di regole che hanno portato alla costruzione del paesaggio, alla gestione delle acque e dei vari aspetti che governano un territorio. Le modifiche socio-economiche hanno reso quello che era una cultura diffusa, il lavoro nei campi che garantiva il presidio paesaggistico, un progetto da studiare, capire e governare. Così si spiega la grande mole del Quadro conoscitivo prodotto per il Piano: un primo punto fermo da cui partire per le progettazioni. Il progetto diventa un’interpretazione creativa dello stato attuale e, prima di tutto, si rivolge alla manutenzione. Com’è possibile dunque proporre modifiche sostanziali al Piano senza cambiare il Quadro conoscitivo?
Questo Piano, al di là delle critiche che si possono sempre spendere per migliorare gli atti, ci costringe a riflettere su reali problemi della nostra società e su quei temi che proprio ora, in una fase di crisi, è necessario affrontare per ben ancorarsi nel futuro, garantito solo dalla qualità. L’abbandono delle aree rurali e montane, la perdita di valori culturali connessi con l’esperienza di gestire il territorio, l’aumento dei rischi ambientali per le condizioni climatiche, l’erosione delle coste, la scomparsa dei crinali mangiati dalle cave, le città rese inospitali dalla crescita incoerente e povere di contatti sociali, le quantità di capannoni abbandonati o mai utilizzati, realizzati non per il lavoro ma per interessi immobiliari, le grandi aree produttive monofunzionali e aperte poche ore al giorno ormai obsolete, i centri direzionali in aree a rischio idraulico mai finiti, le quantità di case invendute, oltre a quelle vuote che non rispondono alle richieste di chi è senza casa, chiedono un diverso punto di vista rispetto al tradizionale consumo di risorse (com’è la riproposizione dell’indiscriminata estrazione del marmo), e al consumo di suolo. Questo piano costringe ad un approccio al territorio e alla città più consapevole, più attento, quindi più difficile soprattutto per chi viene da anni di sregolarizzazione, di fraintendimento fra valorizzazione dei suoli e pianificazione, fra interessi di pochi e interessi della collettività.
Tre, in definitiva, sono i temi principali che ci pone il piano:
1) La manutenzione e la rigenerazione del territorio: fino ad oggi si è considerato progetto solo la trasformazione e la crescita. Invece bisogna capire che il progetto è quello della manutenzione e di una rigenerazione del territorio, rurale, costiero, montano e costruito, con il quale migliorare la società che lo abita, lo capisce e crea le condizioni culturali ed economiche per mantenerlo. Tutto ciò non per gusto estetico, ma perché rappresemta il nostro interesse economico primario.
2) Il controllo delle trasformazioni d’uso dei suoli e, di conseguenza, la limitazione dell’espansione urbana e del consumo di nuovo suolo rurale. La diffusione della città è un costo ormai insostenibile per le nostre amministrazioni; mentre impegnare risorse verso questo tipo di crescita, distoglie dalla cura della città edificata e del territorio, di cui oggi si sente la necessità primaria, sia per la perdita di valori civili e culturali, che per quanto imposto bruscamente dai cambiamenti climatici.
3) La conservazione della città storica e il superamento del dualismo conflittuale centro/periferia: la città storica deve essere conservata ma non bastano le regole edilizie, pur sperimentate con successo nei programmi di recupero urbano. Oggi occorrono anche le politiche appropriate verso i cittadini che la devono ancora abitare e verso le attività che la fanno vivere: perché la città storica non si trasformi in scena vuota, set cinematografico o parco a tema. Nello stesso tempo è necessario superare il dualismo fra centro e periferia come luogo inospitale che crea discordia e disagio sociale. Per questo sono necessarie nuove centralità nel tessuto edificato e interventi di rigenerazione urbana, spazi in cui possa riprendere la socialità della vita urbana, superando l’idea di marginalità, fisica e sociale, insita nella definizione di periferia.